Articolo di Davide D’Alessandro pubblicato su huffingtonpost.it il 1 Ottobre 2022 »
A colloquio con Paolo Francesco Pieri, fondatore della Rivista “Atque”, che ripercorre la lunga esperienza analitica, la formazione con Mario Trevi, il ruolo della psicoanalisi, le tante difficoltà in tempo di pandemia e guerra
Sono andato a trovarlo nel suo studio di via Venezia, a Firenze, nomi che racchiudono due tra le più belle città del mondo in un ambiente caldo, dov’è possibile immaginare e associare, seduti in poltrona o sdraiati sul lettino, dov’è possibile, tra gli scaffali della libreria, ritrovare libri amati, libri che vorrei avere, libri che avrei voluto scrivere. Ci sono andato perché Paolo Francesco Pieri è un antico maestro, l’altro maestro, come recita un fortunato libro da lui curato per Vivarium, che lavora ancora, che ancora si piega sul dolore degli altri continuando a interrogare il proprio, come un vero terapeuta sa e deve fare. Ci sono andato per farmi raccontare cos’è l’esperienza analitica e tanto altro.
Dopo decenni di esperienza e pratica analitica, mi dice che cosa accade dentro la stanza dell’analista? Che cos’è la relazione terapeutica tra analista e paziente?
Come scriveva Aldo Giorgio Gargani, ormai diversi anni fa, alla condizione odierna sembra molto idonea l’affermazione secondo cui per diventare sé stessi bisogna letteralmente inventarsi – per quanto tutto ciò possa apparire paradossale. D’altronde l’attuale concezione della cura non può rinunciare all’importanza della finzionalità e del gioco, dell’invenzione e dell’immaginazione. Ciò che accade ai due inquilini della stanza dell’analisi – vengo così alla sua domanda – ha, per certi versi, a che fare con il “gioco del fantasticare”. Con questa espressione C.S. Peirce si riferiva alla possibilità di produrre molteplici modelli di inventare, simulare, ipotizzare, fare inferenze e immaginare un numero infinito di mondi possibili. Accade quindi in certi momenti, importanti, della cura una involontaria creatività. Una creatività che va distinta sia da quella di stampo romantico-idealistico sia da quella totalmente governata da regole. La creatività, cui qui intendo alludere, è possibile piuttosto pensarla imparentata con quella di L. Wittgenstein. Quando l’autore l’assumeva come l’esito di una mediazione tra un fattuale di partenza e il problema da risolvere. In tale versione, la parola ‘creatività’ ha come sinonimi ‘costruttività’ e ‘formatività’. Sicché rinvia alla prassi che l’adotta – fino al punto di pensare che tale prassi possa essere riscritta e cambiata. D’altra parte, va ricordato che il seguire una regola non è affatto un affare calato dall’alto né è immodificabile. Sta invece tutto propriamente nella prassi, dove la prassi risponde sempre alla vita che stiamo vivendo. Scriveva lo stesso Wittgenstein più o meno a questo proposito: «Io faccio una distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume, e lo spostamento di quest’ultimo; anche se, tra le due cose, una distinzione netta non c’è». Detto molto in sintesi, nella pratica analitica può accadere un momento in cui si crea una “transizione dei codici simbolici”, perché, nello scambio percettivo tra noi e il mondo, i “segni” di noi e del mondo che si erano installati, cominciano a starci stretti; per cui siamo necessariamente rinviati a fronteggiare il mutamento che è in atto – cambiando innanzitutto …il vocabolario.
Lei ha scritto un pregevole “Dizionario junghiano”. La parola, in analisi, è tutto o quasi tutto?
La ringrazio per il complimento. Compilare un dizionario, e in particolare un testo che voleva affrontare il lessico di C.G. Jung, non è stata per me un’impresa né semplice né facile. E non so quanto ci sia riuscito veramente. Quello che mi premeva era proprio sottolineare l’importanza delle parole che Jung ci ha offerto per parlare della psiche, cercando di farle uscire da un loro uso senza ripensarle (nella loro origine e nei loro relativi rinvii). A proposito di parole, mi si consenta di riferirmi a due parole che in questo ambito trovo fondamentali. Da un lato, la vasta area di ricerca della psicologia e della psicoterapia reca con sé il termine greco ‘psychè’ che significa “soffio” (soffio vitale). Pertanto, lo studio e la cura dello psichico rinviano entrambi all’essere vivente, che è tale in quanto respira, ovvero nel suo essere in rapporto con l’ambiente, dove il soffio è inaugurato dall’inspirazione. Da un altro lato, sappiamo come l’inspirare risuoni nel sostantivo greco ‘aisthesis’ che discende dal verbo ‘aisthanomai’ che noi traduciamo con percepire/sentire/accorgersi/aver sensazione/comprendere. È perciò importante come la psicologia e la psicoterapia, per essere tali, debbono ruotare sempre, come un’ellisse, intorno a questi due fuochi. Mi ricordo che l’ispirazione per la compilazione del “Dizionario junghiano” l’ho trovata in quel piccolo dizionario per scolari delle elementari che Wittgenstein aveva scritto dopo il famoso Tractatus, quando il filosofo volle abbandonare il lavoro di ricerca per darsi all’insegnamento in una scuola di campagna. Quel dizionario comprendeva per l’appunto una serie di parole che facevano parte del lessico quotidiano dei suoi studenti, ed erano relative alla comunità in cui essi vivevano e al mondo da cui provenivano.
Molti analisti hanno intrapreso la professione spinti dalla propria ferita, dal tentare di guarirla. Anche per lei è stato così?
Dobbiamo riflettere molto sull’uso, volontario e involontario, della nozione di causalità, ovvero su quante volte ci troviamo ad attribuire ripetutamente una connessione tra due cose, per cui la seconda risulta comodamente spiegabile e magari statisticamente prevedibile, e quindi verificabile, a partire dalla prima. Sicché è di estrema importanza sottolineare l’applicazione ingenua della nozione di causalità; e criticare il fatto che ci accade molto spesso (anche nella vita quotidiana) di ricondurre di ciò che è sconosciuto a ciò che è già noto. Va quindi problematizzato il fatto che le cose finiscono col procurarsi un senso “oggettivo” se non addirittura ontologico, a seconda del modello dominante che impieghiamo per osservarle, ovvero si spiegano attraverso quell’atteggiamento che, essendo divenuto generale e attuale, riceve un’attribuzione di valore e di validità una volta per tutte. Già Jung nel 1914 riconosceva però che l’istituzione di un senso causalistico e l’uso del metodo riduttivo restringono, impoveriscono e sacrificano la formazione psichica proprio in ciò che la caratterizza. E che nella immediata osservazione questa si faccia invece notare per il suo carattere di “abbondanza”, “ricchezza” e “ulteriorità”. Sia nella teoria psicologica che nella cura, ciò che si dà, è fondamentalmente un approssimarsi e distanziarsi di un sé da un altro da sé. Per cui il paradigma di ogni discorso sulla psiche (psicologico e psicoterapico) ha a che fare con una comprensione continua, un discorrere consapevole dell’intersoggettività che lo dispone e che, proprio per questo, non può che essere di tipo ipotetico (provvisorio e non ultimativo). Tutto questo si applica in maniera emblematica alle scelte fondamentali che avvengono nella nostra vita. Si tratta di attitudini nascoste che vengono a darsi quando nella nostra stessa vita accadono eventi inattesi: esperienze sociali, rapporti con certe persone, incontri con nostri pensieri e immagini, sensazioni profonde che certi libri e i loro autori ci hanno lasciato.
Da che cosa è dipesa la scelta di formarsi come analista junghiano? Quali sono le differenze sostanziali con le altre teorie?
Più che analista junghiano, io preferisco definirmi analista formato in una scuola che aveva tradizioni critiche junghiane: emblematica è stata la figura di Mario Trevi e l’aria che in quei tempi si respirava nel piccolo gruppo degli analisti romani che mi trovavo in vario modo a frequentare. Era quello un luogo ben lontano da un atteggiamento cognitivo fondato su principi e affermazioni indiscutibili che costituiscono un rigido sistema determinato una volta e per tutte. In un ambiente altrettanto lontano dal rifiutare ogni possibile critica e ogni ulteriore ricerca. Lì era infatti accolta la molteplicità delle rappresentazioni di ciascun fenomeno od oggetto, e si considerava importante non già il relativismo bensì il relazionismo nei processi della conoscenza e della scienza (non solo psicologica). D’altronde lì si intendeva ogni dogmatismo come un cattivo funzionamento del pensiero, causato dall’interferenza di sentimenti inconsci o di altri elementi psichici mescolati con quest’ultimi. In tal senso si finivano per intendere dogmatiche tutte quelle formulazioni intellettuali che avevano il carattere di rigide perimetrazioni dell’oggetto, considerando che attraverso di esse venisse fondamentalmente a darsi il sentimento di affermazione del soggetto enunciante. Come si vede l’atmosfera che ho respirato è stata quella del contenimento comprensivo dell’altro. Una atmosfera ben lontana da quella che nelle sue ricerche documenta Michel Foucault, quando riferiva che nei luoghi di “cura” come direttore del manicomio doveva essere scelta una persona (ovviamente un uomo) forte, di una certa statura e dotato di una voce tonante, perché solo così avrebbe avuto la meglio sui cosiddetti malati di mente.
A proposito di scuole, rappresentano un punto di forza o di debolezza nella formazione degli analisti? Quali sono i vantaggi e le criticità?
Le scuole, in generale, e quelle di psicoterapia in particolare sono ovviamente importanti: la loro importanza consiste soprattutto nella attività di ricerca, e su questo ritengo ci sia ancora molto da fare. Consideri che l’Istituto C.G. Jung di Küsnacht fu fondato nel 1948 dallo stesso Jung con l’intento principale, direi esclusivo, di svolgere attività di ricerca, che è ben lontana dall’indottrinamento. Ma di fatto è divenuto luogo che in qualche modo finisce col tradire profondamente il proposito del suo fondatore, che tra l’altro criticava i vari “-ismi” e i relativi caratteri inflattivi della coscienza, e che si è trovato più volte a ripetere “Per fortuna sono Jung e non sono junghiano”.
Ha avuto dei maestri, dei punti di riferimento? Quanto sono importanti?
Non è un mistero che una mia figura di riferimento è stata Mario Trevi, un esponente tra i più illustri dello junghismo critico e promotore di una psicoterapia dialogica. Una figura che mai ha accettato l’etichetta di maestro, ma questo non ha impedito che lo sia stato agli occhi di molti e anche ai miei.
“Atque”, la rivista edita da Moretti&Vitali, da lei fondata e diretta, ha superato i trent’anni. È una notizia non di poco conto. Qual è lo scopo della rivista?
La rivista è nata con il preciso intento di raccogliere materiali e ricerche nell’ambito delle pratiche psicoterapeutiche e insieme a queste, quelle filosofiche. Come titolo, la rivista ha scelto la congiunzione latina atque per le virtù semantiche che questa dispiega ma anche per le funzioni che finisce con lo svolgere. Per la prima ragione, tale congiunzione è uno strumento logico flessibile, paragonabile a una specie di ‘e/ma’ e quindi a un ‘e/o’. Peraltro, sarebbe un ‘e inoltre e per di più’. Per la seconda ragione, essa esprime un’intensità relazionale e quindi una coordinazione intensificata che consente di trattenere l’attenzione, seppure per un attimo (ma non è poco), sull’importanza della relazione che intercorre tra due dati differenti. Ed esprime anche un nesso di comparazione tra parole diverse. È comunque molto probabile che le due diverse funzioni (il nesso a carattere comparativo e quello a carattere coordinativo), abbiano in comune un motivo: vale a dire che la marcata coordinazione somigli piuttosto a un gesto logico di confronto, nel senso che diviene un ponte, un ponte che crea un passaggio fra termini relativamente differenti. «Senza dubbio Freud ha fatto male a negarsi alla filosofia». Questo già scriveva Jung circa cento anni fa, considerando – come aveva fatto Kant – l’importanza della critica: vale a dire quanto fosse importante quel processo di cura che avviene quando la ragione prende a oggetto sé stessa. Mi si dice che nel bene o nel male la rivista è la prima pubblicazione con questo intento: in questi trent’anni molte altre ne sono seguite. Comunque, la rivista, né accademica né di scuola, vuole essere solo una occasione per pensare i saperi costituiti – averne cura senza sospendere il quotidiano fare, il fare psicoterapeutico. Sin dalla sua fondazione, la rivista insegue non già l’attualità ma cerca di farne e averne esperienza, quell’esperienza che, con Benjamin, si trova in quel continuo andirivieni tra tempi e “infratempi”, ovvero tra quei momenti di adesione alla vita e i momenti di pausa dove la vita continua ancora a svolgersi ma può davvero essere rivisitata e compresa. È dentro l’esperienza di questi “passaggi” o di queste “soglie” cui la stessa scelta del titolo ovviamente rinvia, che la rivista si è trovata ad affrontare, attraverso fascicoli monografici, questioni centrali che attraversano (e costituiscono) il pensiero sui differenti saperi degli psicoterapeuti e dei filosofi.
La psicoanalisi, data in perenne crisi, è ancora viva. Lei, alle soglie degli ottanta, continua a lavorare. Qual è il contributo che la disciplina può dare in un contesto sociale così complesso, per non dire tragico?
La psicoterapia è fondamentalmente descrivibile come una attività maieutica, con quell’arte della levatrice di cui, per analogia, fece riferimento Socrate, nel Teeteto di Platone, descrivendo il proprio metodo di ricerca filosofica teso a mettere in grado l’allievo, mediante il dialogo, di acquistare coscienza delle impressioni, sensazioni e percezioni che stimolano la sua involontaria attenzione e formano il suo Sé profondo. All’uso di questo termine ricorre C.G. Jung per descrivere il metodo del non-sapere, che apre alla declinazione dialogica (intra- ed etero-psichica) della psicoterapia che egli stesso propose esplicitamente nel 1935. Tale metodo che, fondamentalmente, ha a che fare con la comprensione, è ben distante da quello analitico-interpretativo che, nel suo essere fondamentalmente ma anche acriticamente suggestivo, propone invece una trasmissione dall’alto di saperi precostituiti. La salute della mente e i suoi disturbi, e ancor meglio la sua sofferenza, sono strettamente connessi con l’ambiente (sociale, economico e fisico). Si rileva perciò di importanza cruciale il fatto che la psicoterapia rivolga la cura innanzitutto alla qualità dell’ambiente. La stanza della psicoterapia è quell’ambiente che ospita due inquilini che lavorano con il linguaggio, e proprio con questo lavorano sul linguaggio. Sicché possiamo dire che la psicoterapia è il luogo e il momento delle azioni, trasformazioni e i passaggi che si compiono nella pratica linguistica dei due parlanti, ricercando la capacità di descrivere l’esperienza (sensazioni e percezioni a carattere pre-linguistico) e le sue condizioni di senso prima dei contrassegni collettivamente assegnabili e magari già assegnati secondo stereotipi.
Quanto coraggio occorre per affrontare un percorso analitico?
Immergersi nelle immagini inconsce non è qualcosa che facciamo volontariamente: noi viviamo dentro le immagini. Ormai è certo che noi sogniamo anche da svegli. Ciò che diventa importante è averne consapevolezza, sapere che il nostro Io non è autarchico e che confina ininterrottamente, che lo voglia o no, con quel territorio che gli è sconosciuto ma a cui appartiene. Di questo già parlava Nietzsche quando poneva la questione del Sé come la grande ragione del corpo. E Freud ammoniva che l’Io non è padrone in casa propria, aggiungendo che era servitore di due padroni (l’Es e il Super-Io).
Anche i sintomi sembrano cambiare ed evolvere nel corso dei tempi. È vero che il narcisismo rappresenta la piaga dei nostri giorni?
Ha perfettamente ragione: i sintomi cambiano ed evolvono nel tempo. Ma attenzione, non cambiano le cose ma il modo con cui le leggiamo. Lo stesso destino ha, non può non avere, il narcisismo. Del resto, il sintomo è in generale, qualunque oggetto o evento che finisce con l’avere senso proprio in quanto rinvia a un altro oggetto o evento ben definito, e quindi quando nell’osservazione lo facciamo appartenere a uno specifico quadro di riferimento: per esempio, un fenomeno che è indizio di uno stato morboso ben determinato. Freud ha studiato il sintomo psichico e si è occupato della sua causa e delle differenti forme che esso assume di volta in volta. Jung vede nel sintomo un segno interpretato secondo la logica causale, e pone, in senso forte, la questione del carattere interpretativo di ogni lettura dei processi psichici, e la questione dell’aspetto riduttivo che ha questa specifica forma di lettura. Mettendoci però in guardia sulle nostre etichette conoscitive e quindi sui limiti della trasparenza conoscitiva e sui nostri atteggiamenti routinari che non ci aprono all’ulteriorità. Come si è ricordato “il letto, dove sempre scorre il fiume, può cambiare”.
Qual è il sentimento che prova verso i tanti pazienti che ha avuto? Come li ricorda?
Nel contenitore analitico i pazienti per il terapeuta sono compagni di viaggio. Di un viaggio, à la Dante, con la potenza dell’immaginazione. Di un viaggio, à la Proust, nel tempo e nei ricordi. Di un viaggio che, citando ancora Proust, “non consiste nello scoprire nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. La fine dell’analisi, il momento della separazione, che pure arriva, ho finito con il contrassegnarla – insieme all’addio di rito – con quella frase famosa che suona più o meno così: “Non buon viaggio, ma avanti viaggiatori”.
Che cosa hanno lasciato in lei e nei suoi pazienti questi anni di pandemia e guerra?
Questi anni recenti sono stati contrassegnati da eventi collettivamente drammatici variamente vissuti a livello individuale. D’altronde, nella psicoterapia c’è l’ascolto e la comprensione della sofferenza psichica delle persone e del loro male di vivere. C’è insomma il contatto sensoriale e percettivo della vulnerabilità degli esseri viventi. E insieme a questo c’è il prendere in esame la loro (la nostra) fragilità. Ma c’è in questo da considerare che quell’oggetto di cui facciamo esperienza e che chiamiamo ‘fragilità’, eccede sempre la nostra pura e semplice intelligenza. È infatti opportuno riflettere costantemente su quanto sia importante la nozione di “percezione” e quindi sul rapporto tra il “Sé” e “il mondo delle cose”, che attiene essenzialmente alla modalità con cui l’Io, attraverso il linguaggio, via via lo rappresenta. Dobbiamo perciò rammentare che quell’oggetto che esplodendo a livello estetico-esperienziale ci appare (l’altrui ma anche la nostra fragilità), non è perfettamente trasparente alla nostra conoscenza. È per tale ragione che, nel teatro della nostra cura parlata, importa molto come si parla. In psicoterapia il nostro discorso può davvero procedere solo quando riusciamo a non mettere in scena la vittoria della mediazione linguistica sulle cose: quando, proprio attraverso il dialogo, riusciamo a mantenere viva la sfera dell’oggettuale. E questo può accadere – lo ripeto – quando siamo in grado di mantenere l’oggetto (nel nostro discorso: la fragilità) nel suo essere fondamentalmente opaco. Emblematico di tutto ciò è quello che riesce a dire Eugenio Borgna in quel volumetto che è stato “La fragilità che è in noi”. Lì per l’appunto l’autore si intrattiene criticamente, oltre che poeticamente, sulla fragilità, per rilevare i suoi tratti essenziali ma soprattutto per aprirla a una haecceitas che per l’appunto tende a oltrepassare gli stereotipi di una tale etichetta. Sino a dire, argomentando, “la fragilità è la mia forza”.